Terza Categoria

La mia (brutta) esperienza con la Terza categoria

“Ma chi te lo fa fare?”. E’ una domanda che mi faccio ancora oggi, quasi 5 anni dopo l’ultima partita ufficiale della mia “carriera”. E se penso che avrei potuto evitare prima certe situazioni, mi chiedo perché io sia andato avanti comunque per 3 anni in una gabbia di matti.

Andare avanti

Avevo smesso di giocare già due volte in passato, o almeno credevo di averlo fatto. A 16 anni, dopo l’ultimo anno con gli Allievi del Pineto (che in quel periodo era in Eccellenza), decisi di dedicarmi ad altro, ma cosa? Non pianificai niente in quel senso, eppure ero deciso a scoprire qualcosa di nuovo. L’estate del 2014 ci pensai molto, ma arrivato a settembre non mi era venuta in mente nessuna idea.

Poi, però, ci fu l’opportunità di far parte di una squadra di Promozione, il Mutignano, la società del mio paese. Anche se poche, le tre presenze in quella stagione sono una cosa di cui vado fiero, conoscendo le mie abilità non proprio elevate. Non ho mai creduto di poter essere al livello di quella categoria, ma nemmeno di quella appena inferiore. E poi, mi stava passando la voglia di andare agli allenamenti tre volte a settimana, andare in trasferta, bruciarsi i week-end, cosa che stava già succedendo alle giovanili. Al termine di quella stagione, nel 2015, dopo un anno dal primo “ritiro”, credetti di aver smesso definitivamente, di nuovo.

Il primo approccio con la Terza Categoria

E invece. In ottobre, dopo aver recuperato dalla rottura del quinto metatarso rimediata in un torneo estivo, iniziai a giocare in un campionato amatoriale di calcetto. Giocare con amici, libero da pressioni, mi piaceva, e non avrei mai pensato di dover ricominciare di nuovo la solita tiritera che il calcio, anche dilettantistico, in qualche modo ti imponeva. Ma a inizio dicembre, prima dell’inizio di una partita di quel campionato, mi si avvicinò una persona, che si presentò come l’allenatore di una squadra di Terza categoria. Subito, pronunciò una frase che, nel mio gruppo di amici, è diventata un cult, ovvero “siccome stem a fa la squadra per arsaj…” (‘siccome stiamo facendo la squadra per risalire…’). Davvero stava facendo scouting in quello squallido campionato invernale? A posteriori, dico che era capace di farlo.

Andando avanti con la conversazione, mi resi conto che si era informato sul mio conto, come non l’ho mai saputo. Comunque, devo ammettere che il fatto di sentirsi desiderati è stata una parte importante della mia scelta. La sua voglia di portarmi in squadra era evidente, ma perché poi? Avevo fatto un paio di presenze in Promozione, giocando gli ultimi minuti, eppure per lui sembrava che io fossi un mix tra Maldini e Beckenbauer, essendo un difensore. Mi decisi, e cominciai ad allenarmi con loro, dopotutto il campo sportivo era praticamente a due passi da casa. E dire che l’inizio di quell’avventura prometteva bene: la prima partita con loro, a pochi giorni dal Natale, vincemmo con la capolista (il temibilissimo Casemolino) e giocai tutti i 90 minuti. Ma sai che forse…

Solo un’illusione

Ma quella fu una delle pochissime vittorie in quei tre anni di militanza. Ovunque andassimo, subivamo delle briscole che non finivano mai. Prendere dai 3 ai 5 gol a partita era la normalità, e a vedere qualche elemento di quella squadra, si capiva subito il motivo: il presidente-giocatore che voleva giocare ad ogni costo nonostante fosse uno scarparo clamoroso di 45 anni; il portiere, sulla soglia della sessantina, si sacrificava ogni domenica perché in quel ruolo non c’era nessuno, e devo dire che per questo è da ammirare, anche per la brava persona che è; altri non avevano nemmeno le basi. Ecco che la domanda di inizio racconto inizia ad affiorare nella mia testa.

Insieme a quella domanda, affiorava anche la frustrazione. Spesso mi partiva l’embolo e dovevo trattenermi dal fare qualcosa di stupido. Quando non ci riuscivo, poveri arbitri e avversari. Erano poche le partite che finivo senza essere stato ammonito, e se succedeva era soltanto perché venivo graziato in qualche modo. A Cologna Paese, già ammonito, entrai male sulla caviglia dell’attaccante (che non si fece niente): rissa sfiorata, il portiere avversario si fece 70 metri di campo per tirarmi un pugno, e quando mi girai verso di lui dovettero trattenermi in quattro, nonostante pesassi 10 chili in meno rispetto ad ora, ma la cosa più incredibile fu che non venni espulso. In una partita casalinga, l’arbitro mi ammonì per proteste, e io iniziai a insultarlo così tanto che un mio compagno di squadra mi coprì la bocca con la sua mano. E io continuavo. Credo di aver detto voccapè così tante volte che la parola alla fine aveva perso il suo significato. Anche lì, nessun secondo giallo. Palesemente, così come i giocatori, gli arbitri di Terza categoria sono talmente scarsi che non potrebbero dirigere nemmeno il traffico. Il fatto di non riuscire a controllare la mia rabbia su un campo sportivo, al contrario di quello che accade fuori dove sono molto più tranquillo, è stato uno dei motivi per cui ho lasciato perdere il calcio, anche in un contesto così leggero come dovrebbe essere la Terza categoria.

La seconda tragica annata

Il secondo anno sembrava appena migliore del precedente; qualcuno che sapeva giocare c’era, il gruppo era abbastanza unito, e riuscii a segnare anche un gol, decisivo per il pareggio contro la squadra con cui combattevamo per non fare ultimi, in una guerra tra poveri che vide noi vincitori al termine della stagione. Anche in quell’annata, comunque, si prendeva gol a votamazza. E dire che, finalmente, trovarono un portiere degno di questo nome, ma ci pensò la sfortuna a togliercelo. La mattina del 30 ottobre 2016 si giocava con la Poggese, ma al posto della sveglia a buttarmi giù dal letto ci pensò un terremoto, il più forte che abbia mai sentito. Segnali di una giornataccia. La partita di Terza Categoria si giocò comunque, e il nuovo portiere si ruppe il malleolo in un’uscita sull’attaccante in corsa. Per una volta che avevamo un portiere forte succede questo. Ovviamente, quella partita la perdemmo malamente, come da tradizione.

Eravamo lo zimbello d’Abruzzo, e nemmeno il custode del nostro campo sportivo ci dava fiducia. Dopo una vittoria per 3-0 (!), il martedì, sotto il diluvio universale, entrammo negli spogliatoi e il custode ci accolse con la solita domanda: “che avete fatto domenica?”, preparandosi a farsi raccontare quello che credeva fosse stata una batosta. Quando gli dicemmo della netta vittoria, prima pensò che lo stessimo prendendo per il culo, poi esclamò “ECCO PERCHE’ PIOVE!”.

Terza Categoria, anche nella gestione

Questo prima di venire sfrattati da quell’impianto. La società, formata dal presidente-giocatore e dall’allenatore, non aveva pagato i costi di gestione, e per di più il primo aveva pensato bene di piantare l’erbetta sulla pozzolana, con risultati catastrofici. Più che un prato, quello diventò il set di Tarzan. Ancora oggi mi domando come il comune non li abbia denunciati per aver profanato il suolo che ha visto il Mutignano giocare fino alla stagione della promozione. E poi c’erano i “sotterfugi” per racimolare più giocatori possibile. Un paio di malcapitati che cercavano una squadra di calcio a 5 vennero contattati dalla “società”, che conoscendo le preferenze dei due disse loro più volte di essere una squadra di calcetto. Eppure, quando arrivarono al campo di allenamento, i malcapitati si resero conto di essere stati presi in giro, tornando in auto e andandosene via. Il grande scouting di cui parlavamo prima.

L’inevitabile svolta

All’inizio del terzo anno, stufo di subire valanghe di gol e di avere a che fare con il presidente-giocatore, mi tirai indietro. Ma con il passare del tempo, nella squadra, ci fu qualche cambiamento. Intanto, l’allenatore era andato via, ma il problema non era lui, anzi. L’ho sempre reputato come una bravissima persona, ma che sembrava messo lì per caso, per la comodità del presidente-giocatore, sicuro che con quell’allenatore in panchina avrebbe giocato anche a 70 anni. Alla fine arrivò un coach giovane, che un minimo di calcio l’ha giocato e quindi ne sapeva abbastanza su come posizionare la squadra in campo. E i risultati, incredibilmente, arrivavano. Poco importava che si trattasse di terza Categoria.

Convinto da alcuni compagni di squadra tornai, e mi presentai al campo il giovedì. Senza allenamento, il sabato il nuovo allenatore mi buttò subito nella mischia per 90 minuti, come quinto di difesa, a sinistra! la partita finì 2-2, e mi presi i suoi complimenti. La sfida successiva riuscimmo anche a vincere, in quella che fu la mia ultima partita. Uno dei motivi per cui si guadagnavano punti era la rimozione dai titolari del presidente-giocatore, che non fu molto contento, a tal punto da mettere il suo ego davanti alla squadra e a togliere l’allenatore che tanto bene stava facendo, dopo un’accesa discussione. Fu il punto di non ritorno.

Dopo quell’evento, ci fu una rivolta all’interno della squadra. La maggior parte dei giocatori, me compreso, gettò la spugna e se ne andò. Gli altri continuarono a giocare con una rosa cortissima, aiutata in seguito da alcuni ragazzi di colore (alcuni bravini) che alloggiavano in un hotel che li accoglieva. Erano quasi in autogestione, e andavano avanti a raccogliere palloni nella loro porta. L’episodio clou di quel periodo accadde intorno al mese di aprile: tutti quelli che avevano abbandonato quel manicomio si riunirono a tifare gli avversari della propria ex squadra. Quel sabato pomeriggio passò tra una birra e l’altra, in quindici sulla tribuna del campo Druda a letteralmente 10 metri dal mare, mentre ridevamo di alcune azioni che anche la Gialappa’s avrebbe avuto l’imbarazzo di mandare in onda su Italia 1 in Mai dire Goal.

C’è una foto di quel pomeriggio che ci ritrae su quella tribuna, mentre chiacchieriamo e scherziamo, anche se siamo al di fuori del campo. Perché il gruppo di una squadra deve essere così, preso alla leggera, specialmente se si parla di Terza categoria. Alla faccia di chi cerca di rovinare il divertimento in uno sport.

Andrea Perini

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